giovedì 9 dicembre 2010

Sineddoche: La risposta di Wallace







"Il Dostoevskij di Joseph Frank" è una recensione che David Foster Wallace incluse nel volume  “Considera l’Aragosta” e vi si tratta di come, nel 1957, l’allora giovane professore Joseph Frank fosse colpito da una epifania di proporzioni paragonabili a quella che Dostoevskij sperimentò con gli occhi bendati davanti al plotone d’esecuzione, e di come questo fatto l’avesse spinto a dedicare un’intera vita alla compilazione della più imponente opera di esegesi anglofona sull’opera e la vita di Dostoevskij. Di Joseph Frank e del suo immane progetto, all’epoca della recensione (1996) non ancora completato, discute accuratamente Foster Wallace, con la sua incomparabile e maniacale precisione. La stessa accuratezza, d’altronde, la dedica all’opera di Dostoevskij e a quello che rappresenta per lui come lettore e scrittore americano. Non mancano i soliti momenti esilaranti, dovuti al fatto che raramente Wallace è preda di una sindrome da timore reverenziale. Di certo non intende mandarle a dire, e la sua maniera gioviale e giovanile di confrontarsi coi titani della letteratura, quel suo interfacciarsi appianando le possibili disparità per mezzo dell’ironia, acquista una incomparabile forza persuasiva (Considera l’aragosta è un capolavoro di retorica persuasiva, a tratti sfiancante, certo, coi suoi codicilli e le sue puntigliose note a piè di pagina, ma d’altro canto capace di avvincere e donare il piacere della lettura anche quando discute di diatribe fra linguisti d’oltreoceano).  Così, per la prima volta, assistiamo ad un giovane e geniale scrittore che si libera dall’omertoso imbarazzo accademico e si mostra alle prese con il grande dubbio che sorge in ogni smaliziato lettore di Dostoevskij: “ [in Dostoevskij] Quando le persone si arrabbiano, per esempio, fanno cose tipo “agitare i pugni”, oppure si danno del “mascalzone” o si “scagliano contro” qualcuno.  Si può sapere che cosa significa “scagliarsi contro” qualcuno? Succede decine di volte in ogni romanzo di Fmd. Cosa, “scagliarsi contro” di loro per picchiarli? Per urlare? . Oppure, senza grossi fronzoli, ci viene ribadito che è ben nota l’ironia del fatto che Dostoevskij, le cui opere sono celebri per compassione e rigore morale, nella vita reale era per molti versi uno stronzo: vanitoso, arrogante, sprezzante, egoista.
Ma, certo, più di tutto ci viene ribadito il fatto che ogni carattere di Dostoevskij è un carattere vivo e moralmente significativo, e riesce ad essere entrambe le cose senza perdere mai la tridimensionalità: misura del talento dello scrittore. Ciò che più interessa Wallace, però , è il domandarsi come sia possibile, oggi, per uno scrittore serio, lontano cioè da logiche puramente commerciali, veicolare per mezzo dei personaggi, profondi dilemmi morali ed esistenziali senza suscitare l’immediata ilarità del mondo letterario. E’ possibile essere seri e moralmente irreprensibili nell’epoca dello scetticismo congenito? E’ possibile farsi portavoce di una ideologia per mezzo di quella letteratura che mai come oggi è il canale specializzato nella demolizione di ogni ideologia? Cioè, è possibile costruire qualcosa letterariamente senza che poi ciò che si è costruito sia destinato all’annichilimento? Wallace non ne è sicuro, e ammette che non esistono formule. D’altro canto, nel corso della recensione, avviene qualcosa di particolare. Egli inserisce delle interpolazioni, in ordine casuale, chiuse da due coppie di asterischi, composte esclusivamente da domande esistenziali e  disancorate rispetto al corpo del testo. Una mossa rischiosa e apparentemente irriguardosa, quasi il tentativo adolescenziale di ritagliarsi uno spazio per le proprie riflessioni all’interno di un discorso soggetto a invalicabili limiti strutturali: una ribellione alla forma recensione, ci viene da dire. Ma questo è solo un primo giudizio, che viene presto smantellato da due fatti.
Il primo fatto, che accade nelle ultime righe, è Wallace che scopre il meccanismo delle interpolazioni e lo giustifica, condannandolo, in una specie di mostruoso autodafé intellettuale:
La biografia di Frank ci spinge a domandarci come mai sembriamo richiedere alla nostra arte di tenere una distanza ironica da profonde convinzioni o domande disperate, costringendo così gli scrittori contemporanei a ridicolizzarle o a cercare di farle passare camuffandole con qualche trucco formale come citazioni intertestuali o accostamenti incongruenti, relegando le cose veramente pressanti fra asterischi come parte di qualche artificio polivalente di defamiliarizzazione o qualche cagata del genere.

Il secondo poi, che è più concettuale che evenemenziale, è costituito dalla genuinità di queste domande. E tanta sincerità finisce per giustificare l’espediente stilistico di voluta goffaggine meta letteraria. Accettiamo il giochetto, perché possiede un contenuto autentico. La natura di queste domande è profondamente Wallaciana: sono questioni che ruotano tutte quante attorno al concetto di egoismo inteso come impedimento alla realizzazione di una vera empatia, di una vera connessione di solitudini.
La prima interpolazione recita così:

**Sono io una brava persona? Nel profondo, voglio poi davvero essere una brava persona, o voglio solo sembrare un brava persona in modo che la gente (incluso me stesso) mi approvi? C’è differenza fra le due cose? Come faccio a sapere davvero se mi sto prendendo per il culo da solo, moralmente parlando?** 

Strano a dirsi, ma rileggendola ho creduto che David avesse, alla fine, trovato la sua risposta. Dico alla fine perché l’ultimo racconto da lui pubblicato si intitola Brave persone, ed è una lunga e cerebrale ricognizione nei pensieri di due ragazzi che si apprestano a compiere una scelta doppiamente vitale, in cui è a repentaglio la vera natura umana e ciò che la rende accettabile dentro  un contesto sociale: la sua reputazione. E’ un racconto bellissimo che si conclude, liberatoriamente, così:

E se non avesse la più pallida idea di cos’è l’amore? [...] E se fosse stata solo questione di paura, se la verità non fosse stata altro che quella, e se la cosa per cui pregare non fosse stata neppure l’amore ma il semplice coraggio, il coraggio di guardarla negli occhi mentre lei glielo dice, e di fidarsi del proprio cuore?


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