lunedì 20 dicembre 2010

L’Apocalisse di McCarthy sotto la lente di René Girard: The Road.





“Non mi interessa scrivere storie brevi. Qualunque cosa che non ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio mi sembra che sia qualcosa che non vale la pena”.
(McCarthy intervista a la Repubblica il 10\01\2010)


La Strada è diventato un libro di culto fra pochi eletti. Considerato il peggiore di McCarthy dal grande pubblico, insipido, triste, senza azione e abbandonato a sé stesso non voleva trovare mercato in Italia né come libro né come film. Grazie al cielo uomini spiritualmente vivi, come i manager editoriali dell’Einaudi, hanno salvato dal baratro un capolavoro che altrimenti rischiava di tagliare fuori nuovamente questo paese beota dalla sapienza collettiva.
La trama è lineare e disperante. Un padre e un figlio, sopravvissuti ad una catastrofe, fuggono dai rigori invernali in una America senza cibo, acqua potabile, animali e piante. Piove sempre e se non piove la cenere avvolge ogni cosa soffocando il sole e ogni tentativo di vita. Nemmeno un abbozzo intorno a loro. Le giornate sono una costante lotta per il cibo, ripararsi dal freddo inverno, e fuggire dai loro simili che dediti al cannibalismo si nutrono di tutto ciò che respiri. La madre del bambino suicidatasi, lascia una pistola carica di tre proiettili con cui il marito e il bambino in estremo pericolo si sarebbero tolti la vita. Mentre l’uomo cede alla debolezza e alla malattia il bambino si fortifica e mantiene vivo il fuoco della speranza circa il destino che li attende.

McCarthy è un dolorista, un solitario che non ama la leggerezza ma la tratteggia e la esclude poi (penso lo faccia inconsciamente).  Apre mondi desolanti misterici, e in questi anfratti non esiste il femminile quindi la speranza. Il richiamo profondo al Dio abramitico è totale anche se non voluto immediatamente e viene alla meglio celato.  In una delle sue rare interviste (mi riferisco a quella apparsa su Repubblica il 10\01\2010) afferma la summa del suo modus operandi: “Non mi interessa scrivere storie brevi. Qualunque cosa che non ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio mi sembra che sia qualcosa che non vale la pena”. McCarthy è bravo, religiosamente colto, un uomo colmo di spirito e di altrettanta intelligenza per essere scettico di questo.
La Strada è stato definito un romanzo di formazione apocalittica in cui il rapporto padre e figlio era tratteggiato misticamente e in maniera poco reale, vago e volutamente insipido. Niente di più superficiale poteva essere detto di fronte a questo capolavoro che segna l’abbandono di McCarthy alla frontiera e il mito americano di una generazione self made man e valorosa. Già in una sua precedente fatica Non è un paese per vecchi (con trasposizione cinematografica dei fratelli Coen) McCarthy dimostra la sua vena cristologica: So che nella storia di una famiglia ci sono sempre un sacco di cose inventate di sana pianta. Nella storia di qualunque famiglia. Le storie si tramandano e la verità si tradisce. Come si suol dire. E probabilmente c'è chi pensa che ciò vuol dire che la verità non è abbastanza forte. Ma si sbaglia. Secondo me, dopo che tutte le bugie sono state dette e dimenticate, la verità sta ancora lì. Non va da nessuna parte e non cambia da un momento all'altro. Non si può corrompere, così come non si può salare il sale. Non si può corrompere perché è quella che è.”
Sta parlando della verità nei legami affettivi, delle ombre che vengono esposte in millenni di letteratura, in saghe mitiche, in scritture pre e post abramitiche. Tutti i grandi romanzi, da Dostoevskij a Melville sino ad Isaac Asimov passando per la Austen e la Woolf, parlano ed espongono in maniera chiara o velata di questioni circa l’universalità dei rapporti umani e delle loro implicite complicazioni. La Strada, come ogni libro di McCarthy, è stato accusato di essere maschilista nel senso più becero del termine ovvero di non portare mai una figura femminile sullo sfondo predominante della storia. McCarthy non usa mezzi termini: ”Quando si parla di violenza è bene non mettere di mezzo la donna, se pensi alla donna quella ti porta speranza e nei miei romanzi non voglio parlare di speranza.” Come vedremo in seguito, questa affermazione sarà predominante.


La Strada scorre via veloce, non porta da nessuna parte e per certi versi è lontanissima, anzi direi ulteriore, rispetto alle precedenti fatiche dell’autore. McCarthy cerca di usare la potenza comunicativa delle scritture mitologiche e usa quelle con cui ha più affinità essendo egli cattolico irlandese (anche se ama definirsi scostante rispetto al cattolicesimo, forse un po’ per premura, ma come O’Connor il substrato religioso permea ogni virgola dello scritto). La funzione delle scritture, prima fra tutte la Bibbia, è mostrarci come i rapporti fra le persone siano causa di eventi e mai conseguenze occasionali volute da una immensa mano pacifica dicasi Dio o destino. Nel Levitico si tratteggiano i rapporti fra padri e figli che confluiscono nella speranza profetica di Isaia nel veder finalmente placata l’ira e la furia della divinità contro coloro che dovevano essere i suoi figli prediletti.  René Girard fa bene a sottolineare in un volume (Prima dell’apocalisse, René Girard, Transeuropa) che l’ira dei padri è perenne sino alla fine dei tempi. Essi saranno sempre impositivi, iperprotettivi e quindi ingiusti e tirannici. L’alternarsi di generazioni apre al tempo escatologico verso la fine dell’era del Padre per mano del Figlio e non è mai un processo indolore, anzi passa attraverso la morte e il sacrificio. Nessuno vuole morire, checché si dica di sacrosanti eroi che amano gettarsi nella morte con serena gloria, nemmeno i santi e nemmeno i figli di Dio si sentono esenti dalla paura della Soglia.  McCarthy lo sa e lo usa con sereno distacco. Essendo egli stesso padre, registra come naturale, imporre al figlio la forzata sopravvivenza, la non rassegnazione, la lotta e la bellezza del mondo. E’ in questo contesto estremo, la catastrofe non meglio definita del libro, che il padre vive in funzione del figlio annullando la sua ira verso il mondo e si concentra sulla sua sopravvivenza dello stesso, simbolo della Vita globale. Non è il Dio ebraico che fa perire il figlio e lo sacrifica, ma porta su di sé il sacrificio necessario affinché il tempo si compia ovvero l’abbandono della vendetta e del giudizio. Il padre di McCarthy è inflessibile, vendicativo con chi tenta di metterli in pericolo, guarda con disprezzo gli uomini che si sono lasciati andare al tabù del cannibalismo e hanno abbandonato il fuoco (Tu porti il fuoco? Chiede il bambino all’uomo sulla spiaggia e non accetta un rifiuto come risposta, pena la morte). Si dedica con tutte le forze alla sopravvivenza del figlio divenuto nella sua consapevolezza salvifico (Quando non so più cosa immaginare, mi nutro dell’immaginazione della mente di un bambino). Non è solo salvifico per il padre, ma diviene il simbolo dell’archetipo misterico per eccellenza: la vita indistruttibile.
Il libro, e di conseguenza anche il film, sono stati definiti distopici poco credibili e l’innocenza del bambino è stata mal tollerata da un pubblico cinico e superficiale. Basti cambiare prospettiva e spostarsi realmente sull’analisi biblica dell’apocalisse per vedere come il libro si inserisca in un contesto ulteriore. René Girard afferma: “Mostrare la crocifissione come il sacrificio di un innocente, equivale a rivelare (apocalissi è rivelazione e non distruzione) la natura collettiva dell’omicidio, permettendoci di capire che si tratta di un fenomeno mimetico. Se i “poteri” (prima lettera ai Corinzi) avessero saputo chi era Cristo e cosa sarebbe successo non lo avrebbero mai crocifisso, significava firmare la propria condanna ovvero mostrare il meccanismo di potere più reale e sincero: la persecuzione ingiusta poteva essere rivelata”. Ne la Strada non abbiamo più bisogno di questo, i poteri hanno divorato ogni cosa. Piove perennemente e se non piove una coltre di cenere rende impossibile filtrare la luce del sole. Gli animali si sono estinti e la terra è sterile. Le donne del film finiscono per suicidarsi in massa, essendo il corpo femminile  legato al ciclo naturale, interrotto e mortificato da coloro che non hanno saputo preservare la vita come bene primo e ultimo. McCarthy dimostra come le stesse gerarchie ecclesiastiche siano cieche di fronte al reale pericolo umano, non la biogenetica che apre alla vita proprio la dove la natura lo impediva, ma la protezione dei poteri costituiti tramite armi totalmente compromettenti come quelle atomiche. Mentre si guarda all’uomo come centro delle teorie e speculazioni religiose, la vita ci passa oltre umiliata e affranta. OGM, allevamenti intensivi da lagher sovietici, piogge acide controllate tramite dispositivi chimici. I poteri non proteggono la vita, ma la gestiscono come meglio credono pensando solo al destino della progenie umana. Il libro dimostra come l’uomo senza la Natura non sia altro che desolazione. Un animale in via d’estinzione come tanti altri.
Altra metafora espressiva è lo sfondo femminile: dove manca la vita la donna è assente. Nemmeno il femminismo più acuto ha colto davvero l’essenza della donna permeata di una risorsa inestimabile che è la speranza intrinseca alla vita. Non è un caso che nell’apocalisse ad apparire sia una donna vestita di luna gravida, ovvero ricolma di gloria (la vita gloriosa delle baccanti dionisiache). McCarhy però non vuole essere consolatorio, così mentre il padre si dimostra sempre più attaccato alla vita, il bambino diviene generoso e non vuole punire chi tenta di derubarli del carrello delle provviste, anzi le sperpera nel tentativo di conservare vita attorno a sé. Sono atteggiamenti entrambi distruttivi e senza equilibrio.  Il vecchio, che il bambino porta con sé, rifiuta il cibo offerto e rifugge la vita ben conscio di non voler continuare in uno scenario tanto desolante. Rinfrancato dalla vita può congedarsi da essa con serenità, e nonostante il bambino non lo capisca, si guarda bene dall’imporre una supplica ricordando quanto sia importante- e talvolta vitale- scegliere la morte rispetto alla vita. Oscurità della luna invisibile. Le notti ora solo leggermente meno nere. Di giorno il sole esiliato gira intorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano.

Nel libro di McCarthy è l’apocalisse biblica ad essere la reale protagonista, la desolazione dopo l’invasione di Gog e Magog, l’assenza di tempo perché tutto è compiuto: Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e di bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.

Il Film:
Buon adattamento da parte di Jhon Hillcoat. La sceneggiatura non tradisce le aspettative del lettore. Gli scenari sono resi con la giusta crudeltà, così come le scene più crude del film non vengono risparmiate o censurate. Il film è abbastanza lento, nonostante l’angoscia e la tensione costante, ma non ha buchi di regia. I campi lunghi sono una scelta felice per sottolineare la vastità e la piccolezza degli uomini mentre ci si avvia con questa umanità-relitto verso Sud.
Ringrazio la Videa-CDE che ha avuto le palle per acquistare i diritti di distribuzione fregando i cinefili di casa nostra amanti dei panettoni e di battute di bassa lega.



Voto libro: 9
Voto film: 7,5

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