lunedì 29 novembre 2010

Sineddoche: “ E c’è qualcuno che mi chiama scemo…” - Una difesa di M. Night Shyamalan





Una premessa: questa che state per leggere voleva essere una nota. Redigendola, mi sono accorto che stavo scrivendo un breve saggio. Tanto meglio. Ho tradito subito i miei propositi. In un testo che si apre parlando del tradimento mi pare il massimo che potessi fare. Chi arriverà a capo di questo coso finirà dritto nel listino di gente a cui voglio un sacco bene.



Il mondo si muove per amore: si inginocchia davanti ad esso ammirato.
M.Night Shyamalan – The Village


A chi si sente tradito - dal momento che non lo ammetterebbe mai - risulta arduo comprendere che l’esperienza del tradimento è frutto di un trauma emotivo: non ci si può sentire traditi senza essere stati in qualche modo innamorati o anche solo superficialmente invaghiti. Questo trauma è figlio di un’aspettativa frustrata, un incontro mancato col nostro oggetto d’amore, perdipiù  facilmente alimentato da quell’insidiosa specie di odio di cui è imbevuta ogni pura devozione amorosa, il sentimento di invidia che a guardarlo bene esprime senza censure il desiderio di annullarsi nell’altro, di ricalcare, essere, sostituire la persona che amiamo: poter essere l’altro è una maniera di adorare l’amore che solo noi crediamo di essere capaci di tributargli. Così, quando l’amato fedifrago finisce in disgrazia, non c’è niente di più piacevole che alimentarne spietatamente lo sprofondamento.  Da qualche anno, e in maniera acuta da qualche mese, M.Night Shyamalan è l'oggetto di questo spiacevole tipo di attenzione  che culmina nel goliardico cinismo umoristico americano e nell’ impietoso accanimento sul cadavere, qualche giorno fa vigliaccamente esperito dal meno talentuoso degli attori hollywoodiani (probabilmente per questo più incline al tipo di meschinità in esame ) - e io ho fatto della sua risoluta difesa un motivo di principio. Primo, perché Shyamalan è un grandissimo regista. Secondo,perché è ostinatamente fedele ai suoi principi di artista. Terzo, perché è un uomo che va pesantemente controcorrente, e se offre consolazioni non lo fa in maniera ruffiana, ma costringendo lo spettatore ad interrogarsi sulle cose che nella vita contano veramente. Quarto, perché fa tutto questo in quella maniera naif che risulta deliziosa. Quinto, perché non mi piace il bullismo letterario, e meno ancora quello critico, e meno ancora quello blogger. E’ deprecabile. Non mi piace il bullismo tout court, a dire il vero, e ho sempre considerato il bullo un essere umano senza nerbo, privo di autonomia di giudizio, un povero inetto. Presi dall’invasamento isterico dell’amante tradito, i critici cinematografici e i cinebloggers, di fronte a due prove che hanno suscitato perplessità ( Lady in the water, The Happening ) e ad un fiasco conclamato ( The Last Airbender ), dandosi di gomito e rivoltando accuratamente il proprio pomodoro nel palmo della mano per vedere di spiaccicarlo bene sulla faccia di uno Shyamalan costretto alla gogna, e aderendo al comitato licenziamoci-dal-lavoro-e-passiamo-le-giornate-a-trollare-in-ogni-forum-di-internet-che-Shyamalan-dovrebbe-smettere-di-lavorare-un-po’-come-abbiamo-fatto-noi, facendo tutto questo con quel vile coraggio che cresce nutrito dalla conformità rassicurante della pubblica opinione, facendosi cioè forza del numero, hanno iniziato a riconsiderare retroattivamente tutte le opere di Shyamalan alla luce di questa sua teofania di regista senza talento: anche quelle che hanno amato. Un comportamento assai maturo, mi pare. Al quale mi sento di replicare, ora, un po’ più coscienziosamente, con la mentalità di chi accetta che nella vita è normale essere traditi, dato che succede periodicamente: e non solo bisogna accettarlo, ma è anche utile imparare a perdonare, utile per la psiche, intendo: la nostra. Una delle solenni bagattelle che sento proferire in questi giorni da questa novella torma di collaudatori di ghigliottine per cineasti indiani, è che persino “il sesto senso” sarebbe un film da niente, se gli togliamo il twist finale. Sono aspiranti critici cinematografici a dire questo. E mi rincresce dover replicare che no, se ti sei fatto stordire solo dal twist finale, il twist a là Shyamalan, all’epoca non ancora un marchio di fabbrica, non hai preso bene in considerazione gli altri aspetti del film, e che no, non sarai mai un critico cinematografico, e forse un giorno siederai morto di sonno alle due di notte nel salottino blu di Marzullo ad esibire il tuo inglese impeccabile: e che, dio ne scampi, forse sarai sposato ad un giornalista collaborazionista obeso e barbuto con un bambino nella pancia. No, il sesto senso non è il twist finale, che rappresenta invece l’aspetto meno rilevante di quel film – e anche dei successivi. Il successo del sesto senso è dovuto alla ricchezza di sottotracce articolate su un tessuto organico di personaggi pienamente umani, cioè dotati di un’umanità non ancora avvelenata dalle tossine del postmodernismo, capaci cioè di empatia e sacrificio per gli altri, e mai dissacratori rispetto al fluire delle emozioni (sono tutti quanti personaggi capaci di piangere): non solo personaggi torniti, ma personaggi che assomigliano un po’ alle persone che vorremmo essere, e che in fondo, un po’, siamo. Qui è scattato il sentimento amoroso, qui si è radicato l’odio che oggi imperversa. Shyamalan parlava ad ognuno di noi, e con tale sincerità d’animo, da lasciarci struggere nei meandri di sentimenti potenti come la paura infantile, l’amore filiale, l’amore coniugale. Ecco che cosa ci diceva: ci diceva tutto ciò che è necessario per sentire la vita, per sentirla propria ma anche condivisa con gli altri, senza paura, nell’intimità.  Non è solo il twist. No. La forza dei suoi primi quattro film era quella di accumulare, nel dipanarsi di una parabola affabulatoria, questioni cruciali, fondamentali, salvifiche, essenziali, facendole aderire perfettamente l’una all’altra. Potremmo addirittura fare un piccolo elenco di cose che Shyamalan ci ha detto nei suoi primi quattro film. 

Elenco di cose che Shyamalan ci ha detto nei suoi primi quattro film:

Il sesto senso:

- Che un dono è al contempo una maledizione.
- Che la paura è occasione di verità.
- Che quando aiutiamo, allo stesso tempo stiamo chiedendo aiuto.
- Che quando chiediamo aiuto, otteniamo di aiutare, allo stesso tempo.
- Che niente è esistenzialmente più lenitivo di un amore autentico.
- Che dobbiamo continuamente valorizzare questo amore quando siamo ancora da questa parte.
- Che, se vogliamo essere accettati, siamo costretti a fingere.
- Che possiamo imparare a fingere solo dopo aver scoperto qual è la sostanza di ciò che siamo costretti a nascondere.

Unbreakable:

- Che non si può aggirare il destino che ci è stato assegnato.
- Che padroneggiare un dono è un nostro preciso dovere.
- Che se il dono cova dentro di noi, finisce per avvelenarci: Il dono è un pharmakon e deve essere sacrificato attraverso l’espulsione.
- Che non possiamo eludere il dono neanche in ragione di un altissimo fine ( L’amore, ad esempio).
- Che non approdiamo ad una piena realizzazione senza passare per le zone buie della coscienza.
- Che i figli hanno una così alta considerazione dei padri, da essere disposti al parricidio.
- Che il cuore di un carnefice è sempre pieno di grida di sofferenza.
- Che capire qual è il nostro posto nel mondo è il fine ultimo ( e il mezzo ) della nostra vita.
- Che per scoprirlo, dobbiamo confrontarci con ciò che è altero: il nostro modellamento avviene per mezzo di ciò che ci è completa.

Signs:

- Che i guasti delle dinamiche affettive conducono ad un’alienazione totale: potenzialmente più dannosa di una concreta invasione aliena.
- Che l’uomo che smarrisce il cammino è destinato a ripercuotere il suo dramma sull’intera comunità: perché si viva in pace è necessario che ognuno trovi la sua vocazione.
- Che la fede è un mezzo percettivo: serve a riconoscere ciò che è fondamentalmente nascosto davanti ai nostri occhi ( La mazza da baseball )
- Che l’espressione più dignitosa dell’uomo è sempre il risultato di una fede.
- Che anche la minaccia più inattesa e incomprensibile viene ristrutturata nel momento in cui si abbatte contro la nostra ritrovata convinzione: si scioglie ( Gli alieni sono sensibili all’acqua e la terra è composta per due terzi di acqua: gli anticorpi erano molto più forti dei virus, ma erano debilitati ).
- Che le parole più banali possono assumere i caratteri di un’epifania nei momenti cruciali.

The Village:

- Che il paternalismo è una forma di potere di facile degrado.
- Che la volontà di preservare dal dolore conduce a maggior dolore.
- Che ad un certo grado di paura, corrisponde un proporzionale grado di curiosità.
- Che pensiamo entro i confini di ciò che sperimentiamo.
- Che se siamo mossi da vera carità, niente potrà impedire che essa si affermi.
- Che l’innocenza è il più colpevole dei sentimenti.
- Che la natura di un amore autentico è determinata dalla capacità di sacrificio che la pervade.

Ma non è solo una questione tematica: ciò che colpisce di questi film, è l’abilità stilistica con cui Shyamalan tesse il suo canto. Il cinema di M.Night è un congegno collaudato alla raffinatezza estetica: non c’è un aspetto tecnico delle sue pellicole che non rasenti la perfezione e non sia curato con maniacalità: inquadratura, movimenti di macchina, musica, sonoro, fotografia, gestione delle tonalità cromatiche in funzione simbolica, direzione degli attori. E ciò che più importa è che tutto quanto venga fatto al servizio del raccontare una storia: il primo pensiero non è mai quello di una esposizione didascalica di temi portanti. Ci si concentra sulla qualità del narrato, che in questo modo è capace di sprigionare polisemia. Shyamalan si rende inoltre riconoscibile riscrivendo la tradizione cinematografica di Spielberg ( per temi e vezzi narrativi - i bambini come sognatori ) e Hitchcock ( nella costruzione low cost della suspence, nel prassi della comparsata ), riesce cioè ad inserirsi autorialmente nel solco di una tradizione. E’ lì che, secondo me, cominciano i guai: quando Shyamalan diventa consapevole dei suoi mezzi e dei messaggi che affida alle sue storie. Non è proibito farlo, ma la personalità di un autore deve essere abbastanza forte da sostenere il peso dell’autocritica: non tutti gli autori ne sono capaci, per fortuna, e dovrebbero capirlo ( Fellini, ad esempio, era uno di questi ).  Con “Lady in the water” e “The happening” il meccanismo affabulatorio  si inceppa, e Shyamalan incappa nelle perigliose acque dell’autoesegesi, cominciando a giocare con i suoi temi e il suo stile. I primi si calcificano attorno al nucleo del simbolo e della responsabilità, condensando e appiattendo trama e personaggi nell’urgenza dichiarativa del messaggio ( E’ il caso di Lady in the water, in cui i caratteri vengono ridotti a pedine di un gioco di ruolo in una maniera tanto superficiale e frettolosa da privare il messaggio stesso della sua forza intrinseca ). Il secondo, lo stile, si converte in maniera, finendo per far apparire desuete e consolidate una serie di  formule autoriali che pochi anni prima erano state avvertite come rivoluzionarie: in “The happening” le figurine che fuggono dalla minaccia invisibile sono prigioniere della maniera: il fuoricampo ( strumento prediletto di Shyamalan ) come espressione di una minaccia, la tecnica del demiurgo assurta ad antagonista: sotto questo aspetto “The happening” mostra un lato molto interessante. Se il caso di “The last airbender” in apparenza può sembrare eccentrico rispetto al percorso involutivo descritto finora, dimostra invece la massima cronicizzazione di questo processo: l’attenzione maniacale ai temi che si vogliono veicolati dalla storia porta la storia stessa a morire di inedia narrativa, costretta a spiaggiarsi in episodi drammaturgicamente insignificanti e che portano con sé una sbalorditiva perdita di attenzione al senso. In questo disinteresse della maniera più efficace di avvincere lo spettatore, il film si adopera in espedienti platealmente anti-cinema: ad esempio, il fatto che l’avatar molto spesso non sia il centro dell’azione, ma il motore spirituale del risveglio delle tribù sottomesse è un fatto anti-cinema: sullo schermo difficilmente funziona.

[ Non vorrei peccare di presunzione, ma le due storie più acclamate di Shyamalan mi sembrano, tra le altre cose, espressione di una ispirazione sincera e “obbligata”, quasi il frutto di una necessità: il ragazzino del sesto senso, il supereroe di Unbreakable, tutti e due costretti a maneggiare il proprio potere consapevolmente per non cadere in tristezza e disperazione, non sono forse Shyamalan stesso che sogna il cinema in una famiglia dove tutti sono per tradizione dottori in medicina e lui stesso è ormai destinato ad una brillante carriera di medico ? E’ forse anche questo lo scarto che avvertiamo quando decidiamo che Il sesto senso e Unbreakable sono i capolavori di Shyamalan? Il fatto che stia parlando di sé? ]

C’è poi questo Devil, primo capitolo di una trilogia che Shyamalan ha scritto e prodotto, affidando la regia a giovani talenti del genere. Tutte le cose dette si possono ribadire ( Basti pensare che il breve lungometraggio include due citazioni esplicite di “The happening” e “Signs” ). Ma c’è una cosa che mi interessa di più. Uno dei motivi per cui Shyamalan finisce per risultare così antipatico è il suo divertito e fiero anacronismo: l’accusa che più gli muovono è di non avere senso dell’umorismo. Il problema non è che Shyamalan non possieda il senso dell’umorismo; il problema è che non possieda il senso dell’umorismo che gli si chiede di possedere. Il suo è un umorismo diverso, non mainstream. Ha una natura che non è mai nichilista. E’, cioè , un umorismo di controtendenza, posseduto da una speranza che mostra ancora il volto di un essere umano. Il volto umano invece del nulla, non il vacuo sotto la maschera, ma un’essenza. E’ riso, non scherno. Tutto questo, ai più, risulta inaccettabile. L’umorismo a cui siamo abituati, l’umorismo televisivo, è così dissacratorio che spinge ai limiti dell’annichilimento ogni cosa su cui possiamo fermarci a riflettere. Quel che è peggio, è che è sempre, in ogni caso, subìto: anche quando si crede di cavalcarlo. La sua natura degradante è rimossa così come è rimossa l’idea della nostra inevitabile mortalità, restituendoci il piacevole stordimento di una adolescenziale spensieratezza: posticcia; e temporanea, naturalmente. La cosa curiosa di questo film che parte da un assunto rispetto al quale è difficile richiedere, oggi, una efficace sospensione dell’incredulità  ( Il diavolo che resta bloccato in un ascensore ), è che si applica dall’inizio alla fine in un tentativo semidisperato di coinvolgere lo spettatore nelle vicende narrative sciogliendolo dal peso di una coscienza critica: cioè è un tentativo di totale fascinazione, di restituzione ad un piacere infantile della visione, incantato e senza sovrastrutture. Quindi non è né l’assunto morale né quello spirituale ad avermi colpito di questo filmetto, quanto il suo tentativo di stabilire un contatto su una materia potenzialmente risibile. Come ci riesce? Affidando il compito di estensore del racconto ad un personaggio - un ispanico superstizioso - che intenerisce con la sua ingenua credulità e depriva dell’enfasi i momenti dove il dramma sovrannaturale raggiunge i suoi apici. Nella sua opera apparentemente disingannante, l’ispanico arriva addirittura a demolire la suspense in partenza, palesando così il compito che gli è assegnato: il puro e semplice narrare una storia. Quando tutti dubitano, la sua maniera di credere è ridicola ( La presenza del diavolo è convalidata dalla realizzazione della legge di Murphy circa la fetta di pane imburrata ), quando accade qualcosa di spaventoso, diventa involontariamente comico. La tensione si è rotta? Forse, perché la sala ride anche quando il canone dell’ horror non lo richiederebbe, profanandone gli attimi sacri, ma si trova improvvisamente catapultata nella storia. L’ispanico è un personaggio simpatetico. Si, quello che accade è che tutti sono confluiti di nuovo nella pura affabulazione. Shyamalan ha gabbato la sala, e malgrado resistenze e tentennamenti, ha convertito gli scettici alla fede nella storia che ha scritto. E’ un esercizio di funambolismo. Difficilissimo. Con Devil il cinema di Shyamalan mi è parso ingaggiare una lotta per la sua stessa sopravvivenza, e per la sopravvivenza del cinema tutto.

Il problema è che, una volta che le regole dell’arte sono state smantellate, e una volta che le sgradevoli realtà diagnosticate dall’ironia sono state rivelate in pieno, a quel punto che facciamo? […] A quanto pare, vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà. L’ironia e il cinismo postmoderni diventano fini a se stessi, una misura della sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria degli scrittori. Pochi artisti osano parlare dei modi in cui si possa tentare di aggiustare quello che non va, perché rischiano di apparire sentimentali e ingenui agli smaliziati ironisti. L’ironia si è trasformata da un mezzo di liberazione in un mezzo di schiavitù.

David Foster Wallace

             


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