domenica 21 novembre 2010

Il labirinto di Auster: La trilogia di New York


Paul Auster, La trilogia di New York, Einaudi, 2006 Torino

I racconti pubblicati per la prima volta fra il 1985 e il 1987 sono ormai un classico della letteratura americana contemporanea. La trilogia è composta da: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa.
La difficoltà di questi racconti è che non si possono definire in maniera precisa e nemmeno collocare in generi o sottogeneri, essi sono un unicum da cui non si può uscire senza aver attraversato il necessario travaglio immaginativo. Sono la cura alla nostra malata concezione di vita, al mancato silenzio che toglie concentrazione per la comprensione e l’elaborazione della realtà. Auster sa fare lo scrittore maledettamente bene proprio perché ti obbliga a seguirlo, come i suoi allucinati protagonisti; lui ti da la direzione e non ti viene mai in mente di contraddirlo. Segui le ombre di Auster, i suoi demoni interiori, la sua terribile paura della solitudine, le voci ottuse e vuote degli orpelli di una New York crudele ma ferita. I curatori dell’edizione italiana parlano di “detective stories avvincenti ed eccentriche”. Limitarli nel genere noir è un rischio, ma una buona operazione di marketing. Per chiunque voglia sperimentare il noir, direi che Auster non è decisamente lo scrittore a cui affidarsi, se non per la tensione adrenalinica e allucinata che riesce a tessere con una maestria rara.
In Città di vetro l’autore di romanzi polizieschi Daniel Quinn accetta la sfida investigativa proposta dai coniugi Stillman, essi vogliono essere protetti dal padre del giovane Stillman appena uscito dal carcere. La stravaganza è che padre e figlio portano lo stesso nome: Peter Stillman. Peter senior teologo finissimo, tenterà di riscoprire il linguaggio dell’innocenza prima che il Male si insinuasse nell’uomo e lo inducesse alla caduta dall’Eden. Il finale a sorpresa lascia il lettore spiazzato e disorientato senza alcuna certezza ma si avrà la sensazione  di aver sognato la storia o di non averla compresa fino in fondo,  elemento straniante che rientra nella poetica programmatica di questo autore.
In Fantasmi l’investigatore Blue viene assunto da White per sorvegliare un uomo Black. A seguito di controlli e pedinamenti deve offrire a White un rapporto dettagliato ogni settimana, dopo il quale giungerà un ingente assegno tale da mantenere Blue fisso sul caso. Blue accetta con malcelata gioia il compito ed inizia gli appostamenti sorvegliando Black dalla finestra di un appartamento adiacente. Ciò che sorprende Blue è che il suo uomo ha una vita terribilmente tranquilla, esso passa le sue giornate a scrivere e acquistare le provviste necessarie al super market sotto casa. Blue vivrà autentici momenti di frustrazione mentre Black continuerà a scrivere assiduamente su un taccuino rosso (elemento che ritorna sempre in tutti i romanzi della trilogia). Blue perderà totalmente la pazienza e cercherà di forzare l’appartamento scoprendo una realtà agghiacciante: chi pedina chi?
La stanza chiusa è forse il racconto chiave di tutta la produzione di Auster. Un giovane si immedesima al punto nella vita di un amico tanto da sposarne la vedova e adottarne il figlio. La psiche di Henry Dark sarà così provata da questa assenza di personale dignità da indurlo in un gesto disperato: convincersi che l’amico non è morto davvero e iniziare una ricerca spasmodica tradotta poi in una biografia postuma.  Il lettore non saprà mai se l’architettura del racconto è atta a mostrare l'autogiustificazione di Dark nell’aver rubato l’identità e la vita dell’amico o una reale ricerca dettata da un lutto mai elaborato. Nel racconto ritornano i nomi e i protagonisti dei precedenti Città di Vetro e Fantasmi.
Il filo conduttore dei racconti lo possiamo riassumere in una dichiarazione tratta da un altro importante romanzo di Auster, Leviatano (sempre edito da Einaudi):  Per me la più piccola parola è circondata da acri ed acri di silenzio, e perfino quando riesco a fissare quella parola sulla pagina mi sembra della stessa natura di un miraggio, un granello di dubbio che scintilla nella sabbia. Il silenzio è ciò che pervade ogni esperienza di Auster, ogni tentativo di esplicare il mondo. In ogni romanzo, compreso Il taccuino rosso, Moon Place, L’invenzione della solitudine, Auster ama nascondere nei libri citati una chiave di lettura indispensabile per comprendere il messaggio sotterraneo alla trama che altrimenti sembrerebbe una allucinazione gratuita senza alcuna nota di rilevanza organica ma puro virtuosismo stilistico (I libri vanno letti con la stessa cura e con la stessa riservatezza con cui sono stati scritti, Città di vetro)
La chiave di lettura è il Milione di Marco Polo (citato nel primo racconto da Quinn), celeberrimo scritto che narra il pellegrinaggio di Polo verso l’Asia passando per paesi e suggestioni cariche di paura, disorientamento, mistero e solitudine. In Invisibile il fulcro era Dante e il suo Inferno, mentre qui Auster ci affresca un contemporaneo Milione della psiche devastata dall’impoverimento culturale, dalla noia esistenziale, dalla depressione ma soprattutto dalla paranoia massima che è la fobia delle aggressioni e dell’essere al centro di cospirazioni atte a danneggiarci. Il carosello di Polo, di contrasto, ci mostra un uomo che è in grado di farsi incantare, di emozionarsi, di suggestionarsi al punto di ritenere la vita un incanto supremo, un meraviglioso gioco di Dio.  Auster usa spesso la grandiosità dei miti letterari come specchio per le nostre miserie interiori. Quando ci sediamo nella nostra interiorità, non abbiamo lo sfarzo del Milione o la ricchezza dei suoi viaggi, ben sì la stanza spoglia di Black dotati di pochi strumenti essenziali: un tavolo, un taccuino, pochi libri e una solitudine esasperante.  Auster ama ricordarci in Fantasmi: l'utopia non si trova in nessun luogo... E se l'uomo ha una possibilità di materializzare quel luogo sognato, è solo edificandolo con le proprie mani. E noi abbiamo perso ogni manualità.

Voto: 9

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