sabato 30 ottobre 2010

La temperatura per bruciare i libri? 451 gradi Fahrenheit

Ray Bradbury, Farenheit 451, Oscar Mondadori, Milano,2007


E’ un romanzo “sacrale” scritto nel 1953 da Ray Bradbury, edito in Italia con diversi titoli prima dell’attuale Fahrenheit 451: Gli anni del rogo e Gli anni della fenice. Immediatamente divenne un classico della letteratura di fantascienza, ma oggi si colloca in un sottogenere ancora più ristretto ed insidioso quale la Distopia, personalmente da me molto amato. Per distopia si intende una società indesiderabile sotto tutti i punti di vista che non solo viene tollerata dai protagonisti, ma anche appoggiata e difesa come il miglior modello possibile. La narrativa fantascientifica usa la distopia come un punto di riferimento fisso, una sorta di satira nera che rende la vena realistica altamente suggestiva ed invade il lettore nel centro più debole, ovvero il sospetto del reale (esempi celebri 1984 di Orwell e La svastica nel sole di P.Dick).
La trama del libro, come ogni romanzo di fantascienza distopica, ha una chiave di lettura semplice e lineare che permette al lettore di seguire, senza troppi scossoni, l’intera vicenda. L’obiettivo non è creare, infatti, un gioco di trama complesso ben sì inquietare e mostrare la realtà immaginata con crudele spietatezza. Guy Montag è il pompiere protagonista dell’intera vicenda. Montag fa lo stesso mestiere di suo nonno e di suo padre, ma non è un pompiere come noi lo possiamo immaginare, egli ha il compito di appiccare incendi ai libri, ai volantini, e qualsiasi diffusione della carta stampata. Insieme ai suoi compagni, va in cerca di sovversivi, sfonda le loro case, appicca il fuoco non curandosi della vita del disertore. In un mondo liberticida essi vengono chiamati Incendiari che con malcelato orgoglio amano asserire: “è un bel lavoro. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. È il nostro motto ufficiale”
Le convinzioni di Montag non sono granitiche, in particolare, quando scopre che il Segugio macchina da guerra dello Stato lo controlla senza curarsi minimamente di garantirgli un contraddittorio, o un processo. Nella città di Montag si finisce in galera per due anni superando il limite di velocità, i giovani vengono segregati in scuole di dottrina per poi essere lasciati in liberi in appositi locali dove essi possano distruggere ogni cosa e sfogarsi. Ai giovani viene imposto il divertimento, così come l’intrattenimento forzato viene inculcato attraverso una televisione sempre più alienante e crudele. La moglie di Montag la chiamerà Famiglia, passando sotto le sue grinfie l’intera giornata, e come lei milioni di altre persone. Guy incontrerà Clarisse, una giovane che gli insegnerà ad amare la pioggia e il vento, a correre nelle strade deserte, e non temere la vita incontrollata e le sue profonde responsabilità connesse alla memoria del mondo reale, e non il rifugio utopico dello Stato. Per la prima volta qualcuno ricorderà a Guy la felicità: “Siete felice?” chiede Clarisse prima di sparire all’improvviso senza lasciare traccia.
Montag incontrerà anche un vecchio professore di letteratura inglese (uno degli ultimi rimasti in vita)  Faber, il quale spiegherà la natura del libro e la sua straordinaria componente materiale che lo rende un oggetto fisico fatto di Eros: “Sapete che i libri hanno un po’ l’odore della noce moscata o di certe spezie d’origine esotica?” Poi la voce di Faber cambia timbro, quando avverte Montag della minaccia rappresentata dal capitano degli incendiari: “Ricordati che questo Beatty appartiene al nemico più pericoloso della verità e della libertà, la bovina mandria compatta e inerte detta maggioranza.”
Guy imboccherà una strada senza ritorno, dopo aver imparato a correre egli porterà in salvo i libri che aveva rubato verso una destinazione precisa, il margine della città dove risiedono altri letterati ed intellettuali della passata generazione pronti ad accogliere e difendere quel poco che resta della cultura occidentale. Essi diventeranno libri viventi.
Leggendo l’epilogo dentro di me è scattato un parallelismo, che sino ad allora pensavo lontanissimo in una società iper-culturale come la nostra, con Cassio Severo in un episodio ricordato da Seneca. Mentre nel decreto del Senato i libri venivano dati alle fiamme egli disse con forza solenne: “Ora dovrete bruciare vivo anche me, perché io li so a memoria!”  Parto da questo episodio per analizzare un libro che sembra essere inesauribile in ogni epoca post-moderna. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per ricordarci come il libro sia un mezzo di trasmissione unico del sapere, un’arte unica, antica e insostituibile anche nell’era digitale. Nonostante l’immensa possibilità dell’informatica bisogna sottolineare con forza la sua pericolosa evanescenza che con click imposto ed incontrollato porterebbe il sapere ( non tradotto in fisicità espressa) a svanire come un’idea. Difficile sarebbe bruciare ogni libro, molto più difficile è uccidere qualcosa di fisico. Il mio intento, tuttavia, non è quello di parlare del libro bandito dalla società, basti citare due illustri saggi per esaurire l’argomento:
Arthur Schopenhauer, Sulla lettura e sui libri a cura di Valerio Consonni, La vita felice edizioni
Livio, Seneca, Tacito, Libri al rogo a cura di Mario Lentano, Palmar edizioni
Voglio sottolineare altri due aspetti che sembrano passati in secondo piano dai critici:
1.      Il vuoto che conduce allo svuotamento e alla denigrazione della fatica
2.      Lo spazio vuoto che induce l’uomo ad essere specchio del vuoto stesso
Bradbury sottolinea con forza quanto il libro, pur essendo un oggetto insostituibile, divenga un mero strumento da non subordinare al contenuto dell’informazione. Si deve amare il sapere, la cultura, la parola scritta ovvero l’esperienza dell’arte e dell’uomo e non le pagine date alle fiamme. Dobbiamo diventare uomini abitati, uomini con uno spazio interno tale da renderci colmi di vita nostra e altrui. Bradbury ha paura della letteratura che si fa intrattenimento fine a se stesso, dell’uomo che vuoto diventa emblema della noia e dell’assurdità. Giovani che non conoscono o non ricordano nulla del passato o dell’esperienza umana sono come mine vaganti. Non si fanno scrupolo, infatti, a tentare di investire Montag mentre corre disperatamente lontano dal Segugio. Analogie con fatti di cronaca recenti sono per esempio i giovanissimi che per divertirsi accendono come torce malcapitati senzatetto. Questo è un sintomo dello svuotamento culturale, che piano piano, la società borghese induce a se stessa. Noi tutti diamo la colpa alle Istituzioni, ma esse sono ed esistono proprio grazie alla cultura, piuttosto la responsabilità è dell’Illuminismo infantile che ha condotto come bandiera il concetto del degrado della fatica umana come non necessaria e patologica. L’uomo non deve fare fatica: questa è la società dei seduti. Perché leggere i grandi della letteratura quando qualcuno può narrarli per noi? Magari possiamo ascoltare i riassunti. O le paradossali uscite promosse dall’Espresso, in cui le grandi colonne della letteratura vengono ridotte e rinarrate da sedicenti voci della “cultura” letteraria contemporanea. Sono sintomi pericolosi perché tutti noi non vogliamo fare fatica e preferiamo la tv a Delitto e Castigo senza frapporre indugi. Sarà la nostra società a non voler più leggere e il potere non ammetterà censura, solo sfrutterà la pigrizia per ingrassarsi.
 Il vuoto diventa lo specchio della noia umana, il vuoto diviene l’opposto della vita e della sua esperienza. La narrazione non è intrattenimento, di fatto, tutte le popolazioni dalle più antiche a quelle post moderne devono raccontarsi e tramandare ciò che conoscono per offrire alle generazioni future un linguaggio grazie al quale dare nome alle emozioni che altrimenti non conoscerebbero un corrispettivo nella realtà. Gli antichi usavano il mito, non è un caso che in una società post-moderna e stupida come la nostra, esso venga degradato alla mera favola istituzionalizzata da iper-esperti che l’hanno sembrata come se fossero chirurgi in sala operatoria. Oppure il mito si traduce nel divino televisivo, l’unica prima donna rimasta nella cultura, battendo anche il cinema figlio illegittimo dell’alta letteratura artistica. Il vuoto dunque conduce allo svuotamento dell’uomo, un automa fragile e sparuto, domabile e silente sino a che l’istinto irrazionale non preverrà in atti di insensata ferocia autodistruttiva. L’uomo senza linguaggio è un perduto destinato ad impazzire di dolore. Figura sottovalutata e ridotta a mero cliché di donna-velina è la moglie di Montag emblema di questa vita vuota e repressa. La chiave, a mio modesto avviso, per coglierla nella sua interezza è quella della sofferenza per lo spazio spoglio. Già Montag soffre per le pareti senza arte e bellezza, senza scaffali di libri, proprio lui che ha visto la bellezza fisica degli oggetti, ma ancora di più la sofferenza si riflette su Mildred che non sa dare voce alla sua tristezza e più di una volta tenta il suicidio sventato sempre dal marito. Ella allarga le pareti, fa un mutuo sempre più ingente, per aggiungere maxischermi sui muri sgombri in modo da non accorgersi dello spazio e quindi dell’illusione che sta vivendo. Vuole credere che le persone negli schermi siano reali, una famiglia, un nucleo con cui comunicare. Il rischio non è una desolazione culturale, non la perdita di nozioni o di ricordi legati ai grandi pionieri della cultura, ma la perdita dell’umanità e del rispetto del suo spazio vitale. Curare la propria interiorità con il linguaggio di altri significa adornare un giardino con piante esotiche capaci di condurre a sé le farfalle che noi abbiamo sempre cercato. La bellezza e la vita sono legate ad un concetto di spazio abitato, ma soprattutto di uomo-abitato. Le pareti vuote sono una sofferenza desolante a cui andiamo incontro, le nostre case sommerse dall’immaterialità tecnologica assomiglieranno sempre più a prigioni ricolme di spazio lasciato inerte e morente. Le librerie colme di volumi che davano prestigio alla casa spariranno in e-book, minacciati dalla morte fisica per guasto, i dvd, i dischi, i cd musicali non occupano più le nostre tv, solo il decoder satellitare. Gli amici che verranno a cena non potranno più ammirare il patrimonio culturale che stiamo contribuendo a creare, ma solo normali e vuote pareti adornate da schermi sempre più grandi e rumorosi.
Abbiate pazienza dunque! Prima o poi aboliranno anche il silenzio, l’ultimo spazio vitale necessario per pensare. Ma non sarà una censura, sarà la dittatura della maggioranza. Chi sarà di noi il primo Montag?


Edizione di riferimento:
Ray Bradbury, Farenheit 451, Oscar Mondadori, Milano,2007 euro: 7,50

Voto: 10 e lode

lunedì 18 ottobre 2010

Quando Carver non aveva più tempo: Se hai bisogno chiama


Raymond Carver, Se hai bisogno chiama, Einaudi, 2006

Qui abbiamo un Carver inedito, quasi segreto. E’ una raccolta di scritti che Raymond non volle o non ebbe il tempo di pubblicare. Il risultato è un libro raffinatissimo e dalla rara forza espressiva. Si ha l’impressione di leggere due Carver lontani ma coesistenti. Riccardo Duranti, curatore dell’edizione e della traduzione per Einaudi, propone una lettura sensata anteponendo i racconti postumi a quelli giovanili, permettendoci così di cogliere in maniera oggettiva l’impronta decisiva che solo i grandi narratori possiedono: la capacità costante di migliorarsi. Siamo spettatori ideali della raffinazione di uno stile che definire “minimalista” è dispregiativo e volutamente riduttivo. 
I racconti postumi sono stati raccolti dalla moglie e da Jay Woodruff (caporedattore di Esquire). Lo stile del Carver postumo è perfetto, non ha subito alcuna alterazione o correzione editoriale (come spesso avveniva nelle sue precedenti fatiche). Ha una dignità sottile che resta celata sino alla fine del libro persa nell’immensa, e silenziosa, massa di emozioni. La moglie ci propone l’ordine che lei stessa ha faticato a ricostruire scegliendo gli appunti del marito con attenzione crescente, come se intendesse regalarci un imago assoluto.
Carver appare cullato dall’intima consapevolezza che gli appunti non fossero destinati alla pubblicazione immediata, permettendosi così di abbondarsi in nuove tipologie di sperimentazione. Ci addentriamo in una dimensione ulteriore mai così palese nei grandi capolavori di Raymond (Cattedrale e America oggi) dove la bidimensionalità è una necessità espressiva che porterà ad affidare il senso di profondità alle capacità del lettore. La sfera dell’omissione, di fatto, viene infranta nei racconti giovanili trovando un percorso alternativo nei sogni, nell’ironia e nella parodia.  La vita quotidiana, motivo centrale del Carver maturo, viene elusa dalla fresca ambizione di sondare l’introspezione, l’onirico e il senso comune dell’America attraverso infruttuosi giochi di trama. Questo stile verrà abbandonato (fortunatamente!) a discapito di una poetica matura del quotidiano fatta di una poesia accennata, mai esaltata. La solitudine  dei protagonisti crea una cappa di silenzio assoluto permettendo così ai rapporti interpersonali di incarnarsi in azioni dal sapore straordinario: superare la morte di un figlio, abbandonare l’alcool, cercare di ricostruire il rapporto con il proprio partner dopo reciproci tradimenti. E’ l’epica famigliare che riscontriamo anche nei racconti postumi sempre più lontani dall’ipertrofia giovanile.
Accanto ai consueti leitmotiv conduttori della narrazione fa capo  un unicum: Legna da ardere.
Racconto di apertura di questo volume, Legna da ardere, sembra essere il testamento spirituale (non voluto) di un Carver che risorge dalle ceneri dell’alcolismo.  Un uomo si separa dalla moglie a causa dell’alcool, ma con dignità prova a rifarsi una vita per dimostrare alla stessa (prima che a sé) di poter fare qualcosa di buono. Affitta una stanza presso una coppia e si fa dare un foglio e una penna per poter scrivere alla amata. Per aiutare i coniugi decide di spaccare la legna per l’inverno e così facendo inizia una prova esistenziale silenziosa, come la luna che lo sovrasta mentre si ferisce le mani. Il taccuino dell’uomo si apre con una frase paradigmatica: il vuoto è l’inizio di tutte le cose, mi metterei in ginocchio se solo servisse a qualcosa. Carver ha pietà di sé, si inginocchia alla vita, mentre aspetta tacito la luna che gli permetta di scrivere senza l’ausilio di una luce artificiale. Assistiamo ad una rinascita ma allo stesso tempo ad un viaggio interiore intuito nel piacere ritrovato nella Natura e nella fatica che trova ragione fuori da sé.
Il vuoto in Carver non è mai senza pietà, ma gravido di aspettative e di riscatto. E lui, che è un uomo rinato dalle ceneri, lo sa bene. Più di ogni altra cosa, vuole ricordarci che non esiste una notte eterna, basta spaccare la legna per ardere i nostri sbagli e i nostri rimorsi.
Immenso.

Edizioni di riferimento:

Raymond Carver, Se hai bisogno chiama, Einaudi, Milano, 2006


Voto: 10 e lode

domenica 10 ottobre 2010

Quando Lincoln Rhyme voleva morire: il Collezionista di ossa.


Jeffery Deaver, Il collezionista di ossa, Bur, Milano, 2010


Jeffery Deaver ama sottolineare quanto l’effetto sorpresa sia il cardine del suo stile, senza peccare di modestia. In questo romanzo di apertura della serie  Lincoln Rhyme l’effetto destabilizzante è l’intero tessuto della narrazione.
Niente di ciò che credevate alla fine verrà scardinato ma solo spostato. La tensione è totale come in nessun altro thriller di Deaver. La sorpresa soggiace dietro ogni pagina, mentre la lettura agilissima vi farà provare l’emozione dei poliziotti che si lanciano all’inseguimento nel traffico newyorchese, l’analisi della scena del crimine e l’effetto brutale della morte come la migliore delle scelte possibili. Potrete identificarvi nella bellissima agente Amelia Sachs o il geniale tetraplegico Lincoln Rhyme, senza sentirvi traditi nell’orgoglio di fazione.

Il libro si apre con l’arrivo a New York delle prime due vittime del Collezionista. Poveri malcapitati in un taxi senza via d’uscita alcuna, tutti lo sanno, anche loro.
Amelia affronta la sua prima indagine  (mentre spera di cambiare lavoro) ritrovando un uomo sepolto vivo. La mano del cadavere è protesa al cielo e il dito anulare completamente scuoiato. Lon Sellitto, capo della omicidi, non ha dubbi: la patata bollente deve passare per le mani di Rhyme ormai in pensione forzata dopo l’incidente che l’ha ridotto in fin di vita e completamente paralizzato, eccezion fatta per la testa e il dito indice sinistro. Rhyme cerca di evitare il caso; vuole morire dignitosamente aiutato da un medico specialista in morti assistite. I suoi falchi non lo consolano più, mentre Thom il fido assistente infermiere, cerca di accudirlo con virile comprensione. Rhyme è sospeso in due tentazioni: quella della pace idilliaca e quella della vita caotica senza trama apparente. Sellitto riesce, tuttavia, a solleticare l’orgoglio dell’ex detective sino a convincerlo ad allestire un laboratorio analitico di prove organiche in casa del "povero malato". Amelia, suo malgrado, diventerà gli occhi, le gambe, e la forza di Rhyme assecondando la sua crudele genialità. Con scontri continui, screzi e confessioni dolorose Rhyme condurrà un’indagine contro il tempo stesso e la pressione burocratica dei federali.
Sullo sfondo abbiamo una New York frenetica per la conferenza dell’Onu. Un uomo decide di approfittare di questa confusione per rubare un piccolo libriccino nella biblioteca pubblica, mentre le conseguenze di tale atto sono facilmente intuibili, Rhyme non si farà ingannare mettendo a tacere una volta per tutte quella voce sinistra che è la depressione.

Deaver inaugura un detective lontano dagli stereotipi del genere ma inserito nello stesso. I dialoghi sono perfetti, taglienti, e come Amelia, ci sentiamo schiacciare dalla freddezza e lucidità investigativa del sedicente tetraplegico. I colleghi di lavoro lo guardano con sospetto ma senza pietà, esattamente come farebbe il lettore di fronte al suo cipiglio severo e militaresco. Niente a che vedere con i grandi del giallo, autoritari e perfetti. Rhyme non sarà lo 007 della polizia newyorchese ma nella sua infinità dignità risolverà il caso meglio di chiunque perché obbligato ad ascoltare, ad osservare senza farsi prendere dalla frenesia che spesso caratterizza chi ha sete di giustizia. Rhyme nella sua difficile condizione è abituato ad aspettare mostrandoci come le ore siano fragili esattamente come i nostri nervi. La genialità del libro è delineare da una parte i limiti di una vita menomata e offesa e dall’altra chi ne abusa sino a sentirsi padrone di amare le ossa eterne e non la fragile carne degli esseri che lo guardano supplichevoli. Non siamo uguali nella carne e nemmeno nelle ossa. L’utopia è scardinata. Finalmente.


Voto: 8

venerdì 8 ottobre 2010

Gli angeli di Bukowski amano la birra da sei.


Charles Bukowski, Donne, Tea, Milano, 2010


Recensione: Charles Bukowski, Donne


Sembra quasi di conoscerlo dopo aver letto questo poderoso romanzo. Trasuda alcool, sesso, droga e cavalli. I suoi pezzenti sono divertenti  ma soprattutto umani nella loro (nostra) disperazione comune. Non esiste un perché leggerlo, solitamente si legge Bukowski per ubriacarsi di lettura. E’ una vodka (certo i russi ci sanno fare meglio) la bevi senza chiederti perché, ti va giù e ti gratta l’esofago.

Andiamo per ordine. Proprio come voleva Charles.

La sua adolescenza verrà raccontata nel libro Ham on rye, 1982 ("Panino al prosciutto" SugarCo, poi Guanda, 2000). Vediamo i tratti di un giovane indolente, schiacciato da un padre iracondo, ma segretamente devoto al figlio, e una madre vigliacca che temeva ogni contatto con la brutale massa di Los Angeles. Di fatto i Bukowski, erano di origine tedesca.
Ogni fuga, ogni amicizia e amore venivano stroncati sul nascere. Queste forzate castrazioni rendono Charles così furente con la famiglia tanto da portarlo ad assumere un atteggiamento di ostinata ribellione, un temperamento schivo e disilluso. I suoi professori lo ricordano come un ghigno forzatamente ironico e cinico.
A tredici anni inizia a bere insieme ad altri teppisti mentre l’acne lo deturpava in modo doloroso ed irreversibile. 
Dopo essersi diplomato prova diversi lavori, tutti umili e sottopagati, con la conseguente fuga e ammutinamento di richiamo alle armi. Arrestato per draft-dodgin, renitenza alla leva, a Philadelphia lo vediamo spendere i suoi risparmi nei bordelli, nei club, e picchiarsi in vicoli disperati quanto il suo errabondo vagare tra New Orleans, San Francisco, St. Louis. Esperienze romanzate in Factotum, 1975 ("Factotum" Tasco, poi Guanda,'96)
Nel 1944 viene assunto alle poste ed intreccia una decennale relazione con Jane Baker, alcolizzata. Charles viene ricoverato in condizioni disperate per una emoralgia allo stomaco e al retto, salvandosi solo grazie all’intervento del padre. Jane morirà dieci anni dopo stroncata dall’alcool. Charles scivola in una depressione con numerosi tentativi di suicido arrestandosi solo grazie al licenziamento dall’ufficio postale e la nuova notorietà acquisita.  Charles prova a smettere di svuotare i bicchieri dedicandosi all’ippica e alle scommesse, ma si ubriaca regolarmente. Inizia a collaborare con riviste underground e le sue poesie hanno un eco rilevante sino alla pubblicazione di Nofes of a Dirty Old Man (Taccuino di un vecchio sporcaccione, Guanda, 1979, in prima edizione, poi edito da Feltrinelli) grazie al quale ha un eco internazionale. Si separa dalla moglie.

Il libro Women, 1978 ("Donne" Tasco, poi Guanda,'95) si apre con una dichiarazione di amore imperituro per la defunta Jane, e poca considerazione per l’ex moglie. Incontriamo Charles terrorizzato più che mai, beve ed è disperatamente ossessionato dall’idea di scrivere qualcosa per campare. Tutto pur di non tornare in un ufficio.
E’ una corsa perdifiato fra una donna e l’altra, in una scrittura ridondante e ossessiva, talvolta inutile e vuota. Spesso assistiamo ad un Hank talmente stanco e desolato da rotolare al fianco di una amante insoddisfatta. Lydia, Dee Dee, Katherine, Valerie, Tammie, Debra e Sara sono solo alcune delle donne che provano a far di Hank un uomo felice, o infelice a seconda del temperamento. Le sue donne sono estreme, quasi scegliessero di stare agli antipodi di Bukowski e la sua (non) predisposizione d’animo. Sono incontri disperati, rapidi, senza desiderio o con infinita e strisciante passione. Vediamo Hank in situazioni grottesche  e paradossali mentre si perde in boschi o cerca di scaraventare una sedia a casa della sua ex. Lo sentiamo disperato mentre chiede perché fosse meglio l’amico piuttosto che la sua paura delirante del mondo. Iniziano i reading di poesie vissuti come un lacerante tormento e occasioni di riscatto. Li teme così come teme i commessi di abiti o di liquori. Li vive perché è costretto. Sembra che Bukowski subisca la vita, come un bravo codardo, ma in realtà è solo docile ai suoi infiniti stimoli. Li coglie con una acuta e dolorosa intelligenza facendoci percepire quanto la realtà stessa non abbia senso.

Le sue donne sembrano abbandonate a sé stesse, folli come miracoli, mentre se osservate attentamente sono un'ascesa costante. (“Tu che fai lo scrittore, non ci sai fare con le donne”) Ogni donna è ardua, indomabile e indomita. Charles non osa farle proprie, sente che legarle a sé significherebbe violare la loro natura più ribelle e viva. L’uomo che odia gli altri uomini, in realtà ha un infinito rispetto dell’esistenza e della sua intrinseca libertà di errore. Sembra un Cristo desolato e desolante.
Le dipinge nell’atto sessuale, volutamente caricaturale ed ironico. Ogni donna è diversa (ogni donna ha una fica diversa) e le percepiamo, quasi fossero angeli crudeli e semplici, mentre sono appollaiate a bere birra.
Solo una volta Charles si dipinge veramente nudo: quando lo vediamo baciare la guancia di una sua amica. Non ci resta che leggere la sua tenerezza stordendoci e pensando anche noi “Oh Hank…”. (“ […] È un gran pasticcio. Così dico alla gente di chiamarmi Hank. Il, bravo, vecchio Hank”1)



Riferimenti :

http://www.bukowski.altervista.org/1



Voto: 9,5




Dalla parte delle Lettere


Da circa mezzo secolo si sta dibattendo sulla possibilità di rendere meno istituzionale la Letteratura, quasi fosse un libero gioco di indaffarati scribacchini, senza che gli intellettuali si muovano sul fronte della possibilità.
Tentiamo di conservare i programmi ministeriali, forzatamente campanilistici, senza osservare la globalità dell’esperienza espressiva. L’orizzonte è la morte della stessa, il desolante scenario prospettato da Ray Bradbury in Fahrenheit 451. Ebbene, non voglio dilungarmi sull’analisi del testo, tutti noi sappiamo quanto fosse acuta la sua prospettiva visionaria.

Liberiamo le Lettere dalle forzature antologiche, rendiamole fruibili come un’immensa esperienza formativa alla pari del becco Bunsen che brucia un caleidoscopio di sali. Sia un atto d’amore dunque. Un libro, un film, un disco raccontati sui banchi non siano analisi troppo antologiche o istituzionali, siano strumenti lasciati liberi nelle mani di giovani curiosi.

Questo blog nasce come un grido feroce e dolcissimo al mercato della Narrativa, in senso lato. La più alta delle esperienze che un uomo possa fare è l’esperienza umana, ovvero il contatto con la memoria e l’arte di ogni singolo volto e la sua poesia intrinseca. Questa è la narrativa in tutte le sue forme post moderne. Mentre il mondo dibatte sul nuovo gioiello l’e-book reader, i giovani non leggono e si sono allontanati dal mondo editoriale di loro “spontanea” volontà. Non esiste censura in Italia  (assistiamo ogni giorno come il nostro Paese usi male la stampa e l’editoria per promuovere edonistiche e vuote lame di potere) ma un popolo, un vero e proprio esercito di illetterati. Analfabeti di ritorno, giovani che non sanno scrivere correttamente (senza toccare il vaso di pandora della povera grammatica standard), lessico ridotto a pochissime e semplici parole quotidiane. I giovani non si esprimono e per questo si spengono. Non trovano parole per raccontare le proprie esperienze, sono monchi e muti. Il rovescio di questa medaglia cacofonica è la loro morte personale, la dispersione di vita totalmente casuale e assurda. L’uomo ha sempre avuto bisogno di raccontarsi.
I libri sono che uno degli strumenti privilegiati di quest’arte.

La cultura non muore, ma è povera, ha fame. E’ monca di talento. Stanca. Poco sovversiva. Non disturba ma intrattiene. Lusinga e non scuote. Non è più strumento attivo, ma passivo, nausea e illude. Bisogna selezionare ciò che propone un mercato disonesto e assolutamente ignorante sul contenuto e la profondità necessaria per nutrire una società stupendamente e ferocemente urbana e massificata.
Lo stupore muore con l’immediato.

Di conseguenza questo blog non ha la pretesa di indicare un canone letterario, nemmeno essere un pedante strumento educativo (la sottoscritta non ha tali capacità, e nemmeno l’età) ma una selezione d’amore e passione per il narrare, ma soprattutto il narrarsi dell’uomo. Il gusto, quindi, lascerà posto all’obiettività, anche critica e brutale se necessario, per non alimentare e disperdere quell’energia vitale che tanto si sta allontanando dal mondo, come ama ricordarci il mancato Nobel letterario Comarc McCarthy.